Kunapipi

Kunapipi, reso anche come Gunabibi ("utero")[1][2], è una dea madre e patrona di molti eroi della mitologia aborigena australiana, così nota nella regione a ovest del fiume Roper[2].

Danza della fertilità Kunapipi, Museu de Cultures del Món, Barcellona

Mito[modifica | modifica wikitesto]

Kunapipi diede vita agli esseri umani, così come alla maggior parte di animali e piante. Prima essere spirituale vago e ozioso, l'Anziana (Gadjeri o Gadjari o Kadjeri)[1][2] emerse poi dalle acque[2] e viaggiò per la terra con un gruppo di eroi ed eroine,[3] e durante il periodo ancestrale generò uomini e donne[2] e creò le specie naturali. Poteva trasformarsi in una versione maschile o femminile del Serpente Arcobaleno. In altre interpretazioni, la Madre era la consorte del Serpente Arcobaleno o del Fulmine.[2] In una versione, Kunapipi è una figura (maschile o femminile) che porta in una cesta spiriti di bambini, responsabile di un cruento rito di iniziazione alla base dell'organizzazione sociale degli autoctoni.[2]

Origine e diffusione[modifica | modifica wikitesto]

Il culto di Kunapipi sembra essere sorto tra le tribù che vivevano nelle aree dei fiumi Roper e Rose. Nella versione del popolo alawa, si racconta che sia emersa dalle acque.[1] Si ritiene che, a partire da lì, il culto si sia gradualmente diffuso verso nord-est fino alla terra di Arnhem, dove esisteva sotto forma di figura maschile complementare di Djanggawul, una figura femminile.[4] Secondo Swain, le tradizioni legate a Kunapipi, soprattutto riguardo le sue origini settentrionali, riflettono l'impatto delle influenze sulawesi/macassar, attraverso i contatti con i mercanti di trepang, ed eventualmente il culto pre-islamico della madre del riso, sopravvissuto fino in epoca moderna tra i toraja e i bugis.[5]

Kunapipi è anche il nome di un complesso rito di fecondità, lungo da settimane a mesi e comprensivo di danze, pantomime e canti, nonché l'uso di sangue vivo.[6]

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ a b c Swain, p. 240.
  2. ^ a b c d e f g Eliade 2021.
  3. ^ Swain, pp. 238-ss.
  4. ^ Berndt, p. 4.
  5. ^ Swain, pp. 241-244.
  6. ^ Eliade 1990, pp. 97-99.

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]